Smart working in Paesi diversi e legislazione applicabile ai fini fiscali
A cura della Redazione
L’Agenzia delle entrate, con la circolare 25/E del 18/08/2023, ha fornito precisazioni e indicazioni operative, in merito alla determinazione della legislazione applicabile ai fini fiscali, ai lavoratori che operano in smart working in Paesi diversi da quello di residenza.
Come si ricorderà, il problema di determinare il Paese titolare della potestà impositiva per i lavoratori in smart working, è sorto durante il periodo Covid-19, quando per le restrizioni adottate dai vari Governi al fine di contenere il diffondersi della pandemia, alcuni lavoratori si sono visti costretti a lavorare da remoto da Stati diversi rispetto a quelli in cui avevano la residenza oppure la sede del datore di lavoro, perché impossibilitati a lasciare il luogo in cui in quel momento si trovavano.
Questo problema, anche dopo il periodo Covid-19, è rimasto dato che lo smart working continua ad essere una modalità di svolgimento del rapporto di lavoro fortemente utilizzata.
Il concetto di residenza fiscale
Secondo l’Agenzia delle entrate, per determinare la legislazione applicabile è necessario far riferimento al concetto di «residenza fiscale». Definito dall’art. 2, c. 2 del TUIR.
Tale disposizione considera residenti in Italia le persone fisiche che, per la maggior parte del periodo d’imposta (ossia 183 giorni in un anno, o 184 giorni in caso di anno bisestile):
- sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente;
- hanno nel territorio dello Stato italiano il proprio domicilio;
- hanno nel territorio dello Stato italiano la propria residenza.
Tali condizioni sono tra loro alternative, con la conseguenza che anche la sussistenza di una sola delle stesse è sufficiente a radicare la residenza di una persona nel territorio dello Stato.
Le nozioni richiamate dall’articolo 2 del TUIR vanno intese, per espressa previsione normativa, ai sensi della disciplina contenuta nel codice civile che, all’articolo 43, definisce il domicilio come il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi e fa coincidere la dimora abituale con il luogo di residenza.
In particolare, come chiarito già nella circolare ministeriale 2 dicembre 1997, n. 304, per configurare la residenza non è necessaria la continuità o definitività della dimora abituale, con la conseguenza che periodi anche prolungati di assenza non ne escludono il radicamento in Italia.
Anche la giurisprudenza (Cass. n. 435/1973) ritiene che la residenza non viene meno per assenze più o meno prolungate, dovute alle particolari esigenze della vita moderna, quali ragioni di studio, di lavoro, di cura o di svago.
La giurisprudenza di legittimità ha confermato, inoltre, che affinché sussista il requisito della “abitualità della dimora” non è necessaria la continuità o la definitività (Cass. n. 2561/1975; Cass. SS UU n. 5292/1985), e ha chiarito che detto requisito permane anche se il soggetto lavora o svolge altre attività al di fuori del comune di residenza (del territorio dello Stato), purché:
- conservi in esso l’abitazione,
- vi ritorni quando possibile,
- mostri l’intenzione di mantenervi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali (Cass. n. 1738/1986, richiamata dalla più recente Cass. n. 25726/2011).
In merito al domicilio, occorre tenere conto anche dei rapporti di natura non patrimoniale, come quelli personali e affettivi, per considerare localizzato in Italia il centro degli affari e degli interessi.
Più precisamente il centro principale degli interessi vitali del soggetto va individuato dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente in modo riconoscibile da terzi (Cass. n. 25189/2022, che richiama Cass. n. 6501/2015).
Una volta chiarito quando una persona debba ritenersi fiscalmente residente in Italia, trova applicazione l’articolo 3, comma 1, del TUIR, in base al quale le persone residenti in Italia devono sottoporre ad imposizione nel nostro Paese tutti i loro redditi, ovunque prodotti (c.d. worldwide taxation principle).
Presunzione di residenza fiscale
Ai fini della determinazione della sussistenza della residenza fiscale, va tenuto conto anche dell’art.2, c. 2-bis del TUIR secondo cui, salvo prova contraria, si considerano residenti in Italia le persone cancellate dall’anagrafe della popolazione residente in Italia e trasferite in Stati o territori a regime fiscale privilegiato individuati nel decreto del Ministro delle Finanze del 4 maggio 1999 (c.d. presunzione relativa di residenza fiscale).
Soltanto la piena dimostrazione, da parte del contribuente, della perdita di ogni significativo collegamento con lo Stato italiano e la parallela controprova di una reale e duratura localizzazione nel paese fiscalmente privilegiato, indipendentemente dall’assolvimento nello stesso paese di obblighi fiscali, attestano il venire meno della residenza fiscale in Italia e la conseguente legittimità della posizione di non residente (Circ. A.E. 140/1999)”.
Pertanto, anche a seguito della formale iscrizione all’Anagrafe degli Italiani residenti all’estero (AIRE), nei confronti di cittadini trasferiti in Paesi o territori a fiscalità privilegiata continua a sussistere una presunzione (relativa) di residenza fiscale in Italia.
A tal proposito si ricorda che il DM 20/07/2023 ha eliminato la Svizzera dall’elenco dei Paesi a fiscalità privilegiata (gli effetti decorrono dal 2024). Ne deriva che un soggetto che trasferisce la residenza in Svizzera dal 2024 non sarà più tenuto a provare che è venuto meno qualsiasi legame patrimoniale o non con l’Italia.
Lavoratori in smart working (lavoro da remoto)
Entrando nel dettaglio della problematica evidenziata all’inizio, ossia la legislazione applicabile ai lavoratori che svolgono l’attività in smart working, l’Agenzia delle entrate precisa che i criteri di determinazione della residenza fiscale delle persone fisiche restano quelli previsti dall’articolo 2 del TUIR e non subiscono alcun mutamento per coloro che svolgono un’attività lavorativa da remoto.
In altri termini, le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa non incidono sui criteri di determinazione della residenza fiscale, che restano ancorati all’integrazione di almeno una delle suesposte condizioni di cui all’articolo 2 del TUIR.
A tal proposito l’Agenzia delle entrate propone i seguenti esempi:
Esempio 1
Il reddito è imponibile in Italia perché si considera residente fiscale in Italia (mantiene in Italia la sede principale dei suoi rapporti personali e affettivi e la dimora abituale).
Esempio 2
Il reddito è imponibile in Italia perché si considera residente fiscale in Italia (prevale il requisito anagrafico).
Esempio 3
Il reddito è imponibile in Italia perché si considera residente fiscale in Italia (prevale la dimora abituale).
Esempio 4
Il reddito è imponibile in Italia perché si considera residente fiscale in Italia, salvo prova contraria.
Esempio 5
Il reddito è imponibile all'estero perché si considera residente fiscale all'estero, anche se la sede del datore di lavoro è italiana. |
Lavoratori in smart working e regime speciale impatriati e docenti e ricercatori
L’Agenzia delle entrate affronta anche la questione relativa al riconoscimento del regime speciale degli impatriati ai lavoratori in smart working.
Secondo l’Agenzia delle entrate, può accedere al «regime speciale per lavoratori impatriati» di cui all’art. 16 del D.lgs. 147/2015, il soggetto che trasferisce la propria residenza in Italia, pur continuando a lavorare in smart working alle dipendenze di un datore di lavoro estero, a partire dal periodo d’imposta in cui avviene il trasferimento in Italia.
Al contrario, non potrà continuare a fruire dell’agevolazione in esame il soggetto che, trasferitosi a lavorare in Italia, successivamente traslochi all’estero pur continuando a svolgere dalla nuova località la propria prestazione lavorativa per il medesimo datore di lavoro italiano in modalità smart working, in quanto in tal caso i redditi si considerano prodotti fuori dal territorio italiano.
Invece, un docente o un ricercatore trasferitosi in Italia che intrattenga un rapporto di lavoro con un Ente o con una Università situata in uno Stato estero, per cui svolge la propria attività di docenza o ricerca in modalità smart working non potrà beneficiare dell’agevolazione di cui al DL 78/2010 (L. 122/210) per i relativi redditi in quanto non sussiste un collegamento tra il trasferimento in Italia e lo svolgimento di una attività di docenza e/o ricerca nel territorio dello Stato.
Residenza fittizia
L’Agenzia delle entrate riprende anche un concetto già noto da qualche decennio, ossia che la cancellazione anagrafica della popolazione residente in Italia (con contestuale iscrizione all’AIRE) non fa presupporre automaticamente che la residenza è stata trasferita all’estero.
Infatti, richiamando la circolare Min. Finanze 304/1997, ricorda che l’indagine del trasferimento fittizio della residenza fiscale deve concentrarsi sulla verifica dei criteri alternativi di residenza e domicilio.
In particolare, le indagini dovranno avere ad oggetto l’accertamento della simulazione di un soggetto che, nonostante le risultanze anagrafiche attestanti il trasferimento della residenza all’estero, mantenga il centro dei propri interessi rilevanti in Italia.
Il dato formale dell’iscrizione all’AIRE e la circostanza di prestare l’attività lavorativa parzialmente o integralmente da remoto per un soggetto estero non sono di per sé elementi sufficienti a escludere la residenza fiscale in Italia qualora, da una valutazione complessiva dei rapporti economici, patrimoniali e affettivi, risultino integrati i citati criteri di individuazione della residenza fiscale nel nostro Paese.
La residenza fiscale nelle convenzioni contro le doppie imposizioni
La determinazione della legislazione applicabile non può prescindere dalla disposizioni contenute nelle convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia con i singoli Stati esteri, la cui prevalenza sul diritto interno è pacificamente riconosciuta nell’ordinamento italiano e, in ambito tributario, sancita dall’articolo 169 del TUIR e dall’articolo 75 del D.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600, oltre ad essere stata affermata dalla giurisprudenza costituzionale (si vedano, sentenze della Corte Cost. 26 novembre 2009, n. 311, e 24 ottobre 2007 n. 348 e n. 349).
L’espressione “residente in uno stato contraente” contenuta nell’art. 4 del Modello di Convenzione OCSE (e presente nei vari trattati internazionali) designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è ivi assoggettata ad imposta a motivo del suo domicilio, residenza, sede di direzione o di ogni altro criterio di natura analoga. Tuttavia, tale espressione non comprende le persone che sono assoggettate ad imposta in questo Stato soltanto per il reddito che esse ricavano da fonti situate in detto Stato.
Per l’individuazione della residenza fiscale si rimanda, dunque, innanzitutto alla definizione adottata nella legislazione degli Stati contraenti.
Nel caso in cui le normative dei singoli Stati contraenti siano in contrasto tra loro, qualificando entrambe una persona come residente, il conflitto viene risolto con l’attribuzione della residenza ad uno solo dei due Paesi mediante l’applicazione, secondo un criterio gerarchico, delle c.d. TIE BREAKER RULES.
Queste ultime identificano i criteri di collegamento della persona allo Stato. Quindi, una volta che uno di essi trova riscontro in uno solo dei due Paesi, quello diventa lo Stato di residenza fiscale.
In particolare, la determinazione della residenza fiscale in base alle TIE BREAKER RULES avviene prendendo in considerazione, in ordine gerarchico:
- Abitazione permanente (immobile attrezzato e reso idoneo ad una lunga permanenza);
- Centro degli interessi vitali (relazioni personali ed economiche più strette);
- Soggiorno abituale (dimora abituale);
- Nazionalità;
- Accordo tra le competenti autorità dei due Paesi contraenti.
Esempio 1
In questo caso l’abitazione permanente può essere il criterio dirimente ai fini della determinazione della residenza. Quindi i redditi sono imponibili nello Stato estero.
Esempio 2 (A.E. interpello 127/2023)
Si considera assoggettato a imposizione esclusiva in Italia, in quanto il contribuente risulta residente in Italia e l’attività lavorativa viene svolta nel nostro Paese. |
Reddito di lavoro dipendente
La circolare dell’Agenzia delle entrate richiama anche il paragrafo 1 dell’articolo 15 del Modello OCSE che stabilisce la tassazione esclusiva dei redditi di lavoro dipendente nello Stato di residenza quando l’attività è ivi svolta. Nel caso in cui lo Stato di residenza e quello della fonte (ossia lo Stato in cui è stata svolta l’attività lavorativa che ha prodotto il reddito) non coincidano, si applica un regime di imposizione concorrente.
Invece, ai sensi del paragrafo 2 dell’articolo 15 del Modello, viene ripristinata la tassazione esclusiva nello Stato di residenza anche quando l’attività lavorativa è svolta nello Stato della fonte, ove ricorrano congiuntamente tre condizioni:
- il beneficiario dei redditi di lavoro dipendente soggiorna nello Stato della fonte per periodi che non oltrepassano in totale i 183 giorni nell’anno fiscale considerato;
- le remunerazioni sono pagate da o a nome di un datore di lavoro che non è residente nello Stato della fonte;
- l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nello Stato della fonte.
Quindi, se un soggetto non residente svolge la sua attività di lavoro dipendente in Italia è assoggettato a imposizione nel nostro Paese in relazione ai redditi imputabili all’attività prestata nel territorio dello Stato.
Tale conclusione, secondo l’Agenzia delle entrate, non è inficiata dalle modalità di svolgimento della prestazione.
In altri termini, anche qualora questa venga svolta da remoto (SW) per un datore di lavoro estero, si considera comunque prestata in Italia, con conseguente riconoscimento della potestà impositiva italiana.
In sostanza, il lavoro dipendente si considera svolto nel luogo in cui il lavoratore è fisicamente presente quando svolge la prestazione per cui è remunerato, indipendentemente dalla circostanza che la manifestazione di tale lavoro abbia effetti nell’altro Stato contraente.
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