Il richiamo alle armi per i lavoratori ucraini in Italia

A cura della Redazione

Nel nostro ordinamento, il richiamo alle armi nel settore privato è disciplinato dalla L. 653/1940, secondo cui, in linea generale, i lavoratori richiamati alle armi hanno diritto, per tutto il periodo del richiamo, alla conservazione del posto ed il relativo periodo è computato, a tutti gli effetti, nell’anzianità di servizio.

Oltre alla conservazione del posto di lavoro, ai soggetti interessati è dovuta:

a) per i primi 2 mesi una indennità mensile pari alla retribuzione;

b) successivamente a tale periodo e sino alla fine del richiamo, nel caso che il trattamento economico militare sia inferiore alla retribuzione inerente all'impiego, una indennità mensile pari alla differenza tra i due trattamenti.

L’indennità di cui alla lett. a) non può essere concessa, nel periodo di 1 anno, che per l'ammontare di 2 mensilità della retribuzione anche se nel periodo stesso l'impiegato sia assoggettato a più richiami eccedenti i 2 mesi.

L’art. 1, c. 2, della citata L. 653/1940, ha inoltre previsto che, in favore degli impiegati suindicati (si vedrà, nel prosieguo, come la norma, in realtà sia applicabile anche alle altre categorie legali) sarà continuato, sino alla fine del richiamo, il versamento dei contributi relativi all'assicurazione obbligatoria per l’invalidità e vecchiaia e per altre forme di previdenza obbligatoria, sostitutive o integrative di essa, nella misura dovuta sull'ultima retribuzione mensile percepita al momento del richiamo.

I lavoratori interessati alla disciplina in commento sono non soltanto gli impiegati ma anche gli operai1 dipendenti dalle aziende industriali, agricole, commerciali, credito e assicurazione, i professionisti e gli artisti e i dipendenti di enti cooperativi, anche di fatto, ivi compresi i soci che prestano attività retribuita presso gli enti stessi.

(1) L'indennità, in seguito all’intervento della Corte Costituzionale (sentenza n. 136 del 4.5.1984), spetta ai dipendenti con qualifica di operaio, impiegato o dirigente in aziende private industriali, artigiane, dell'agricoltura, del commercio, del credito, delle assicurazioni, delle professioni e arti, di compagnie portuali e altre compagnie e carovane di lavoratori, soci di enti cooperativi anche di fatto.

 

Il datore di lavoro provvede direttamente al pagamento, anticipando in busta paga, per conto dell'INPS, un importo corrispondente all'indennità insieme all'eventuale assegno per il nucleo familiare (nei casi residuali in cui, a decorrere dall’1.3.2022, è ancora previsto), e pone, infine, l'importo a conguaglio in sede di compilazione del modello UNIEMENS.

Si ricorda che il trattamento è soggetto alle normali trattenute previdenziali ed erariali ed è previsto l'accredito della contribuzione figurativa.

Il diritto all'indennità si prescrive entro due anni dalla fine del periodo di richiamo alle armi.

I requisiti per aver diritto all'indennità sono: un rapporto di lavoro in essere e il richiamo alle armi del lavoratore sia per esercitazioni che per servizio da parte di corpi militari e militarizzati.

Hanno diritto al trattamento ex lege 653/1940 i lavoratori:

·         trattenuti sotto le armi dopo il compimento del normale periodo di leva (non più obbligatorio dall’1.1.2005);

·         che si siano arruolati volontariamente in caso di esigenze di carattere eccezionale;

·         riformati, chiamati per la prima volta alle armi;

·         dispensati dal servizio militare perché residenti all'estero che, rientrati in Italia dopo i 32 anni di età, vengono chiamati per la prima volta alle armi.

La legge 653/1940, sebbene emanata in un periodo storico certamente non caratterizzato da una forte presenza di lavoratori stranieri nel nostro Paese, non ha mai fatto un esplicito riferimento, ai fini della sua applicabilità, ai soli lavoratori italiani, né tale indicazione è stata fornita dalle successive modifiche legislative che la citata norma ha subito nel corso degli anni.

Ad avviso di chi scrive, tuttavia, le tutele di cui sopra non possono essere garantite anche ai lavoratori ucraini (stesso discorso vale per i lavoratori di nazionalità russa o di qualsivoglia altra nazionalità), regolarmente presenti in Italia con permesso di soggiorno valido, che siano stati richiamati alle armi dalla propria Nazione. Nonostante, infatti, il Testo Unico sull’immigrazione garantisca, esplicitamente, a tutti i lavoratori immigrati, regolarmente soggiornanti in Italia, il diritto alla parità di trattamento rispetto ai lavoratori nazionali (art. 2, D.Lgs. 286/1998), non solo per ciò che concerne il trattamento economico e la disciplina del contratto di lavoro, ma anche per quanto concerne i diritti in materia di sicurezza sociale, è opportuno, in tale sede, ricordare come, in materia di sicurezza sociale e, più in particolare, di prestazioni previdenziali, vige il principio di reciprocità delle prestazioni che deve essere garantito da apposite convenzioni tra l’Italia ed il Paese extracomunitario. Convenzioni che, allo stato attuale, non si rinvengono tra i Paesi (Italia, Ucraina e Russi) di cui alla fattispecie esaminata.

In virtù di quanto su esposto, sia nell’ipotesi in cui il dipendente straniero soggiornante in Italia, in caso di conflitto bellico internazionale, venga richiamato alle armi dal proprio Stato, sia nell’ipotesi in cui lo stesso si offra volontariamente di andare a combattere per la propria Nazione, si ritiene non solo inapplicabile il riconoscimento dell’indennità INPS ma anche la conservazione del posto di lavoro. Pertanto, l’unica strada percorribile sarebbe la concessione di un’aspettativa, retribuita o non retribuita a seconda della volontà e delle esigenze organizzative/produttive del datore di lavoro (*). L’eventuale mancato accordo tra le parti in tal senso potrebbe portare anche, come extrema ratio, al licenziamento del lavoratore (per assenza ingiustificata dal lavoro).

(*) Secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione (sent. n. 3979/2022), anche nei settori diversi da quello edile, la contribuzione previdenziale è sempre dovuta nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione concordata della prestazione stessa che costituiscano il risultato di un accordo tra le parti derivante da una libera scelta del datore di lavoro e non da ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo (quali malattia, maternità, infortunio, aspettativa, permessi, cassa integrazione).

 

Cosa succede se, durante l’assenza, il permesso di soggiorno scade?

Nella fattispecie prospettata, il lavoratore dovrebbe attivarsi prima della partenza, sotto l’aspetto burocratico amministrativo, in modo da garantirsi la possibilità di rientrare in Italia dall’estero senza incorrere in particolari criticità, anche qualora il permesso di soggiorno, nel frattempo, scada. Il DPR 394/1999 (attuazione del T.U. Immigrazione), infatti, all’art. 13, c. 4, prevede che il permesso di soggiorno non può essere rinnovato o prorogato quando risulta che lo straniero ha interrotto il soggiorno in Italia per un periodo continuativo di oltre sei mesi, o, per i permessi di soggiorno di durata almeno biennale, per un periodo continuativo superiore alla metà del periodo di validità del permesso di soggiorno, salvo che detta interruzione sia dipesa dalla necessità di adempiere agli obblighi militari o da altri gravi e comprovati motivi.

 

 

 

 

 

 

 

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